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Zita dei fiori

Giulia Lorenzin ha letto per noi

Zita dei fiori - Mondadori

TITOLO: Zita dei fiori

AUTORE: Mario Tobino

ANNO PUBBLICAZIONE PRIMA EDIZIONE: 1986

CASA EDITRICE: Mondadori

GENERE: Raccolta di racconti 

TRAME E PERSONAGGI:

LE DUE STANZETTE DEL MANICOMIO DI LUCCA

Tobino in prima persona narra del suo ritorno al manicomio di Lucca, dove ha il ruolo di medico curante, dopo un relativamente lungo periodo di malattia. Le due piccole stanze che gli fungono da abitazione sembrano, con il suo ritorno, animarsi, parlargli nel profondo. Gli oggetti in esse contenuti sono ormai per l’autore familiari, lo dirigono nello spazio senza che egli abbia alcuna esitazione.
Le scrivanie, il letto, i quadri dispersi per le pareti diventano la personificazione delle sue amicizie più care, tanto che il protagonista irrompe nell’intrattenere veri discorsi con esse, a testimonianza che la follia non si incontra soltanto nei pazienti del manicomio ma pervade ogni singola anima che vi ci si rifugia.

 

LA ZITA DEI FIORI

La giovane Zita, discesa nel tredicesimo secolo da Monsagrati, curava da tempo la casa dei signori Fatinelli, tanto da essere diventata la più importante delle domestiche. Con il suo animo dolce e gentile conquistò ben presto la simpatia e il rispetto di tutti i lucchesi, co-cittadini della famiglia Fatinelli. Nell’aiutare il prossimo Zita provava una sensazione di pace e felicità che mai aveva sperimentato in precedenza, ma fu proprio la sua generosità un giorno a scatenare le ire del suo padrone di casa. Egli, notando che la ragazza si stava dirigendo a casa di due povere donne per portare loro del cibo, le intimò di mostrare il contenuto del suo grembiule e, inspiegabilmente, tutte le vivande si trasformarono in bellissimi fiori.
Il secondo curioso avvenimento avvenne in prossimità di un pozzo, dove la Zita riuscì a trasformare l’acqua in vino per un povero forestiero.
L’ultimo, infine, avvenne a suo beneficio: la notte in cui la giovane serva decise di andare in visita alla chiesa di San Pietro a Grado, la farina in casa Fatinelli si trasformò in pane, e tutti inneggiarono al miracolo.
Il 27 Aprile 1278 si sparse per Lucca la voce che Zita era deceduta e tutti, riunitisi sotto le finestre di casa Fatinelli in piazza San Frediano urlarono al cielo la sua santità.
La giornata in memoria della Zita dei fiori,  così chiamata in ricordo del suo primo miracolo, riunisce ancora il 27 Aprile i Lucchesi in festa.

 

VISITA ALL’INNOMINATO

Il malvagio Innominato di Manzoni si trova a confronto ( anche se ormai di lui non rimane che un’ombra inconsistente) con  un uomo dei tempi contemporanei che di notte lo invoca per farsi chiarire un dubbio che lo assale: cosa causò, realmente, la conversione di un uomo un tempo così crudele.
L’Innominato, non svelando il suo nome, risponde volentieri ai quesiti che gli vengono posti: egli spiega che tutto avvenne gradualmente, ma che tre furono i momenti fondamentali: le preghiere di Lucia, dopo la sua cattura; lo sguardo compassionevole del Nibbio nei confronti della povera donna e, infine, il suono delle campane in festa per l’arrivo in città del cardinale Borromeo. Quest’ultimo, uomo sereno e pieno di benevolenza, riuscì a fare sentire il potente Innominato una persona simile a lui, come se fossero parenti.
Dopo questo episodio l’Innominato comprese a fondo i suoi errori e, dopo aver licenziato i bravi non più in grado di stargli appresso, cambiò stile di vita e di pensiero e visse tempi tranquilli e di pace, fino al giorno della sua morte, avvenuta serenamente tra quelli che furono per una vita i suoi bravi.

 

SOLDATO SCONFITTO

Nel caldo torrido della Libia, teatro di una guerra ormai al suo termine, un comando italiano è in fuga sull’altopiano del Gebel quando, per necessità di rifornimento di acqua, la camionetta si ferma in un piccolo paesino di case coloniche. Ed è proprio qui che il tenente si mette a riflettere e a rimpiangere il suo soldato e amico Federici, “figlio di nessuno” come amava definirsi, morto e sotterrato nel deserto libico. Da questa sua riflessione nascerà una poesia, scritta di fretta su un taccuino, sul dolore della morte quando non si può assaporare il dolce gusto della vittoria.

 

FIORELLINI INSANGUINATI

Dopo la metà del XVI secolo, a Firenze, Isabella, figlia di Cosimo I de’ Medici si trova costretta a sposare Paolo Orsini, duca di Bracciano, per ragioni politiche, dovendo così interrompere la sua vita di feste e ilarità. Ma ben presto il duca si rivela svogliato e così, sola a Firenze, Isabella trova nella cugina Eleonora un’amica e compagna di vita. Insieme rivivono i momenti che avevano caratterizzato le loro vite prima del matrimonio (anche Eleonora fu costretta, infatti, a sposare Pietro de’ Medici).
Le loro avventure erano spesso sulle bocche di fiorentini, a volte ingigantite, e così, dopo la morte di Cosimo, il fratello di Isabella, Francesco, invidioso della vita mondana condotta dalla sorella decise di vendicarsi, richiamando l’Orsini in città. Quest’ultimo decise di portare la moglie in vacanza per qualche giorno nel castello di Carretto Guidi, fuori città. Lì la donna venne a sapere che l’amica e cugina Eleonora era stata strozzata dal marito e, intuitivamente, capì quale sarebbe stato il suo destino nell’arco di poche ore, ma decise di non sottrarvisi.
ll 16 Luglio 1576 Isabella venne soffocata dalle stesse mani del marito, compiaciuto insieme agli altri assassini e cospiratori di aver risanato l’onore della famiglia Medici.

 

LUI SI CHE CI SAPEVA FARE

L’ambientazione di questo breve racconto è sicuramente cara all’autore: guerra di Libia, 1941.
La vicenda narra dell’incontro tra il tenente medico, il capitano medico e il capitano del genio, i quali vengono convocati all’alba di un mattino dal generale del comando. Mentre aspettano di conoscere il motivo di questa convocazione discutono  tra di loro: sono accampati da 8 giorni e  non è ancora successo alcun fatto anomalo. Certo, la perdita di tre soldati non poteva suscitare scalpore; ciò che poteva invece turbare l’animo del generale era la loro sepoltura in cimiteri di altre compagnie.
All’arrivo dell’aiutante maggiore viene introdotto loro, con cerimonie regali, il generale. Questi esige entro sera un cimitero per la sua divisione, e si è già procurato anche la croce da mettere al centro del suddetto luogo sacro. Si andrà a prenderla con l’ambulanza a Tripoli: quattro giorni di viaggio.  Dopo questi ordini, proclamati in tono severo, congeda gli astanti.
I soldati dovranno essere seppelliti nel suo cimitero che sarà il più illustre. Il Duce vuole tanti morti da utilizzare per le trattative e il generale glieli preparerà ben allineati come tanti gioielli: bisogna saperci fare.

 

L’APPENDICE INNOCENTE

Il protagonista di questo brano era un chirurgo nato: calmo, sicuro, con la mano delicata. Abitava in provincia  e lì lavorava, studiava, metteva alla prova la sua maestria. Un giorno l’unico uomo politico veramente importante della regione ebbe personalmente bisogno del chirurgo. Furono tali la perizia e la sollecitudine che l’uomo politico si interessò al chirurgo e gli chiese quale fosse il suo desiderio.
Il chirurgo rispose che gli sarebbe piaciuto lasciare l’ospedale di provincia ed insegnare chirurgia all’università; così, dopo pochi mesi, lasciò la sua sala operatoria  e si diresse verso una piccola università , alla cattedra di chirurgia.
Era diventato il Maestro e tutti facevano a gara per compiacerlo. Continuava a lavorare, a studiare e dopo 5 anni  finalmente arrivò la nomina alla cattedra di una grande città dove una grande corte di persone ossequiose lo attendeva. E lo attendevano soldi, tanti soldi.
Acquistò uno yacht che usava 15 giorni l’anno per invitare amici e conoscenti a navigare nel Mediterraneo e, un giorno di una calda estate, proprio su questa imbarcazione con gli amici, a pranzo notò che mancava un passeggero neo-laureato e gli fu risposto che aveva una colica.
Andò in cuccetta a visitarlo e, benché il giovane dicesse di sentirsi meglio, stabilì con il suo assistente che si trattasse di appendicite.  Avrebbe operato lì, in mare aperto, esposto a tutti i rischi.
Aprendo il corpo del paziente si rese conto che  l’appendice era rosea, sanissima: un’appendice innocente. Agli ospiti non fu fatto cenno di questa innocenza e le sue doti chirurgiche vennero esaltate ancora una volta.

 

LA TERRAZZA SOTTO LE STELLE

La terrazza con due stanzette a Forte dei Marmi dove il protagonista narratore con l’amica Giovanna passava  da anni le estati è appena stata venduta e lui si lascia andare ai ricordi. I ragazzi di Giovanna lì sono cresciuti; sorse  una nuova villa  vicino  con una  bougainvillea  che  di anno in anno divenne sempre  più bella.
L’uomo attendeva  l’arrivo della sera  e con essa gli amici: il pittore Tirinnanzi, il più caro, l’ingegnere Vittorio, gli amici lucchesi, una volta anche il Ragazzini, celebre fotografo. E poi ecco le stelle, il profumo della bougainvillea.  I momenti più belli erano quelli passati con Giovanna a fine serata, quando si confidavano l’un l’altra.
La terrazza sa tutto di loro ed ora è stata venduta: quei tempi sono finiti. E’ ora di partire senza neppure voltarsi per un ultimo sguardo, un ultimo addio.

 

RITRATTO D’ARTISTA COL DIAVOLETTO SULLA SPALLA

Il pittore Nino Tirinnanzi ha tante ottime doti: ricorda tutti i fatti ai quali nella vita ha assistito,è pervaso dall’energia che è la porta sostanziale della sua personalità,è facilmente emozionabile, appare ricco di sentimenti delicati e capace di fremere ed emozionarsi come un bambino. Ma ci sono delle ore della giornata e soprattutto della notte in cui è preda della volontà di un diavoletto che lo comanda e ne cambia la personalità. Dopo essere stato preda di queste trasfigurazioni, nelle ore seguenti Nino chiede perdono di quanto compiuto sotto l’influsso del Maligno, si pente, si inginocchia, si confessa a Dio e chiede l’assoluzione dai suoi peccati.

In ogni caso Nino è anche un inesauribile conversatore, un esperto d’arte pittorica ed ha la virtù di spiegare con chiarezza anche i problemi generali dell’arte, la lunga fatica per avvicinarsi alla bellezza.

Nel ritratto di Nino non devono mancare anche le sue qualità più lievi quali l’essere maestro in cucina e la sua capacità d’essere un giudice imparziale e sapiente di vini.

Ma per descrivere in toto la sua persona bisogna ricordare la sua capacità di percepire il diverso svolgersi dei moti dell’animo altrui, di avvertire di ognuno le verità palesi e quelle segrete.

 

NOTTI DI PROVINCIA

Il periodo laico delle sbandate notturne di un gruppo di amici di Lucca è protagonista di uno tra i racconti più personali dell’autore in questa raccolta.
Rinomati professionisti vengono guidati da Federico Federici  (Fefè per gli amici) nell’Italia del primo dopoguerra, al primo nascere del benessere economico.

L’autore, che allora dirigeva il Manicomio di Lucca, si trova trasportato nell’allegra brigata che si avvia per le strade della città, ma soprattutto della provincia Lucchese a combinare “allegre birbonate”. Dapprima infuocati per la fondazione di un gruppo Radicale al seguito del giornale di Pannunzio, si trasformano con il passare dei giorni in allegri compagni sempre presenti al locale “Della Vedova”, pronti a irridere a squarciagola i loro compaesani e le loro abitudini bigotte.

Le allegre birbonate hanno spesso luogo nei locali di Montecatini dove Fefè, accolto da allegre e studiate canzoncine, sa velocemente trasformarsi da compunto avvocato in abile batterista. Una sera la compagnia giunge  fino a Borgo, residenza della storica fidanzata di Fefè, ove il rigoroso avvocato, decide di dare sfogo ai propri reconditi sentimenti in un insulto pubblico e corale rivolto alla famiglia della fidanzata.
Con il passare del tempo l’allegria lascia il posto alla semplice quotidianità: Fefè torna ad essere lo stimato avvocato Federici che sposa la storica fidanzata e  la brigata di amici si scioglie. Solo l’occasione della definitiva chiusura delle case d’appuntamento stabilito dalla legge Merlini riesce a dare il là al gruppo di bontemponi per ritrovarsi e rievocare le notti passate, con un’ultima gag in cui il rinomato gioielliere Bellantoni si traveste da questore e sancisce la chiusura del casino della Sitrì.

 

DEMETRIO GRECISTA

Demetrio ama la Grecia, la sua storia, i grandi autori: il primo è Omero e dietro tutti gli altri, fino a Platone che tramutò il pensiero in poesia. Demetrio è un faro e un oscuro sacerdote che tiene calda la speranza della poesia: leggerla per sé, spiegarla agli altri, favorirla in tutto quello che può.

Ma Demetrio è nella vita anche un avvocato, padrone dei codici, non teme le responsabilità, disinteressato al massimo:un avvocato che potrebbe guadagnare quanto vuole, ma che preferisce allontanarsi da quel meschino lavoro per respirare un’aria diversa, pura, l’aria dell’antica Grecia.

Demetrio è l’amico del narratore; colui il quale tutte le sere giunge con la sua bianca auto, fin su per il viale del manicomio di Lucca, per accompagnare il dottor Tobino alla consueta cena in trattoria, dove sotto l’egida di  Dioniso tenta di ritrovare la purezza per sé e per gli altri.

Demetrio un giorno si trovò d’improvviso padre; lui che non era adatto, con un bimbo solo, abbandonato dalla madre, fu capace di tenere fronte, non si lasciò travolgere dall’amarezza; cambiò, scoprendì attenzioni che non gli erano proprie, si dimostrò capace di accudire e crescere un figlio.

Ciononostante Demetrio, puntualmente ogni sera, è anche in grado di non rinnegare sé stesso e continua ad accompagnare l’autore alle cene in trattoria, dove Dioniso amichevolmente si accomoda in loro compagnia.

 

ERA UN PISANO, UN PISANO!

Un medico racconta al suo collega e amico Demetrio di come lo Sbrana, famoso in città per il suo passato, riuscì ad ingannare l’ospedale psichiatrico.
Lo Sbrana era figlio di un negoziante di stoffe che possedeva diverse botteghe nel Fillungo, la via più importante di Lucca.  Condusse per anni  una vita dissoluta circondato da  donne discinte e parassiti e così non impiegò molto tempo a sperperare tutto il patrimonio di famiglia che gli era stato  lasciato in eredità.
In passato si prese persino di sifilide ma, non avendo più disturbi, quasi si dimenticò di essersi infettato.
L’episodio chiave avvenne però una sera, al lussuoso Grand Hotel di Montecatini: lo Sbrana  scese nel salone nudo, con un vaso da notte in testa, volteggiando tra i tavoli.
Essendo di provenienza lucchese, si ritrovò in poche ore ricoverato all’ospedale psichiatrico di Maggiano, dove Tobino lavorò per anni.
Fu curato con una terapia innovativa, la malarioterapia, che lo rimise in piedi. Lontano dalla dissolutezza ebbe modo di far conoscere le sue doti tanto che i medici del reparto lo proposero per un impiego in economato.
Per anni la sua vita trascorse tranquilla fino a quando la contabile dell’economato si accorse che truffava l’ospedale aumentando sui libri contabili le ore lavorate dalle infermiere e trattenendone i relativi compensi.
Lo Sbrana fu denunciato, ma, resosi conto di come stava evolvendo la situazione, fuggì velocemente da Lucca.
La sorpresa di Demetrio fu grande, essendo lui di Lucca e non avendo mai sentito parlare dello Sbrana. Così egli  chiese informazioni  al Passaglia, suo amico e  proprietario del caffè più famoso di Lucca , che della città conosceva proprio tutto. Venne così a sapere anche dello Sbrana e una domanda gli sorse spontanea: perché non gliene aveva mai parlato? Perchè la madre era di Lucca ma il padre pisano. “Era un pisano, un pisano!” Per questo non lo ricordava nessuno.

 

KINZICA, L’EROINA

La storia di Kinzica è ambientata a Pisa, al tempo solo un agglomerato di case di commerciati e costruttori di navi, intorno all’anno Mille.
I nemici erano i saraceni che dall’Africa settentrionale, dalla Spagna e dalle isole del Mediterraneo  partivano per assalire navi o per saccheggiare le città portando morte e distruzione. Dopo un periodo di calma, in cui la cittadella crebbe di qua e di là dall’Arno, i Saraceni ripresero la guerra  e sbarcarono a Reggio Calabria. Il pontefice chiese aiuto ai Pisani e la loro flotta salpò per aiutare la cristianità.
Musetto, re saraceno di Sardegna, decise di approfittare della situazione per saccheggiare e distruggere Pisa. In piena notte ancorò le navi e con le barche leggere approdò sulla costa. Così, inaspettatamente e tragicamente, cominciarono a Pisa i saccheggi, le uccisioni e gli incendi  nei quartieri di là dall’Arno.
Kinzica, ragazza fragile e minuta, si accorse di quello che stava succedendo e, nonostante la madre le avesse chiesto di nascondersi, decise di andare di là dall’Arno a svegliare i suoi concittadini perché potessero combattere e salvarsi. Uscì di casa e si rese conto che il nemico era vicino e allora corse, corse, sfuggì  ad un turco ed attraversò il ponte. Urlò e picchiò sui portoni per svegliare la gente. Arrivò davanti al Parlascio e ragguagliò un console sulla situazione. Le strade ormai erano piene di cittadini pronti a difendersi. I consoli decisero di far suonare tutte le campane ed i saraceni , attoniti per il grande suono, sospesero i saccheggi.  Pensarono a un ritorno della flotta dalla Calabria. Nel buio non riuscirono a capire la reale situazione e così lasciarono bottino e prigionieri per tornare alle loro navi. I pisani furono salvati eroicamente da Kinzica.

QUANDO UNA DEA MI PRENDE PER MANO

Anche in questo brano Tobino narra in prima persona un episodio (chissà se reale o inventato) con una bella ragazza di Fiesole.
Lei non avrebbe mai pensato che una città come Lucca sarebbe potuta essere comparata alla vista che lei, dal suo giardino, aveva di Firenze. La considerava, anzi una città morta; questo spronò il protagonista a portarla nella sua città, una mattina in cui pioveva a  dirotto.
Appena giunti a Lucca però la pioggia cessò: la città si presentava come una dea agli occhi dei due ragazzi, una dea che ascoltava le loro preghiere. Piazza San Michele, Chiasso Barletti, la Torre delle Ore, il Fillungo: la città li aveva presi per mano e si mostrava come era veramente. Sembrava che i palazzi parlassero, perfino con un che di burlesco.
Proprio nel momento in cui la cattedrale riuscì a strappare un sorriso a Giovanna, però, la pioggia ricominciò a battere, e il narratore sentì una grande solitudine dentro, si sentì abbandonato.
I due ragazzi si rifugiarono a casa di amici ma Mario non disse nulla di come Lucca lo aveva preso per mano: per essere un medico di manicomio lo avrebbero preso per pazzo.

 IL LUNGO AMORE

Il lungo amore citato nel titolo è quello dell’autore per la natia Viareggio, per la città che visse da quando apprese a parlare. La sua marineria, la lucentezza della spiaggia versiliese, i suoi tramonti e le Apuane che giganteggiano alle spalle.

Il ricordo inizia dalle ombrose pinete, una a levante ed una a ponente, che ne delimitavano i confini; pinete con stretti e misteriosi sentieri impregnati dell’odore di resina, alberi maestosi abbattuti durante il secondo conflitto mondiale e sostituiti,con il beneplacito di oscuri ottusi amministratori, da anonimi casermoni che dovevano costituire il nucleo della “città Giardino”.

L’amore per Viareggio rinasce costantemente nel ricordo per tutto ciò che la città fu negli anni passati: la marineria, cuore della gente ed esercito senza peccato, la vita balneare per pochi signori, tutta la quotidianità di una piccola città di mare.

E per godere tutta la costa viareggina, la bellezza  della Versilia, l’unico modo è spingersi al largo con una barchetta, il navigare senza alcuna fatica, con un fruscio d’acqua sulla prua mentre si sta al timone e ci si abbandona. 

 UN CONCITTADINO

Il ricordo di Lorenzo Viani, viareggino, importante pittore e scrittore di fronte, futurista blasonato che schierato politicamente con gli anarchici e gli anticlericali, per amore della sua pittura aveva aderito,per lo meno formalmente, al nuovo regime; aveva detto sì a chi lo lusingava,a chi lo esaltava pittore della nuova era fascista.

Questa adesione gli costò il saluto degli antichi compagni che iniziarono a considerarlo un traditore, a voltargli il viso al suo passaggio e tutto ciò lo portò alla solitudine nella natia Viareggio. Gli restavano i fascisti, quelli del posto, per lo più piccoli borghesi che giudicavano Viani come un pittore che sgorbiava figuracce.

Al suo funerale solo un drappello di dieci-quindici persone, i neri, comandati a quel servizio, camminavano con irosa malavoglia dietro al carro funebre. Perché la sorte aveva voluto così, perché il grande pittore di Viareggio, il quale era sempre stato un tutt’uno con la città e le sue storie, con il suo coraggio e la sua genialità marinara, non era accompagnato dalle sue bandiere, dai suoi amici e dalla sua gente?

 SI INCONTRANO I VECCHI MEDICI DI MANICOMIO

La raccolta di brani si chiude con un dialogo in qualche modo toccante tra due anziani medici manicomiali che con la legge 180 dovettero assistire alla chiusura dei manicomi e furono costretti a lasciare andare liberi per il mondo tutti quei pazienti che curavano fino al giorno prima. Si narra delle vicissitudini di quei nuclei familiari che si sono trovati all’improvviso impreparati a gestire queste presenze, a volte violente, a volte autolesioniste, fino ad allora accudite nei manicomi.

Una profonda vena di tristezza per questi pazienti abbandonati, incapaci di far fronte al quotidiano, vena il dialogo fra i due medici che, per difendere ed aiutare i malati di mente si dichiarano nemici di chi maneggia politica e sociologia e imbratta la psichiatria.

 

AMBIENTAZIONE:  Toscana; XVI secolo- contemporaneità.

 COMMENTO PERSONALE: 

“Zita dei fiori “ è uno tra gli ultimi libri scritti da Mario Tobino. Pubblicato nel 1986 dalla casa editrice Mondadori,  questa opera (da molti sottovalutata, tanto che non è più in commercio) è una raccolta di brevi racconti che si possono facilmente raggruppare sotto diversi nuclei tematici cari allo scrittore, come la guerra  da lui vissuta in Libia o la sua vita negli ambienti del manicomio.
Nonostante lo scarso apprezzamento da parte del pubblico di lettori, questa raccolta trasmette nel profondo le vicende che hanno caratterizzato la vita dell’autore non tanto dal suo punto di vista professionale, come medico psichiatrico, quanto dal punto di vista umano.
Tobino lascia trasparire i sentimenti che lo pervadono, immergendosi e accompagnandoci  nei suoi ricordi, a partire da quelli di gioventù per arrivare a quelli più recenti all’anno di pubblicazione.
Non tutti i brani sono però inerenti alla vita dell’autore: le tematiche spaziano, dal XVI secolo ad oggigiorno, dal nord al sud dell’Italia (e non solo).
La scrittura è decisamente scorrevole e la lettura piacevole, i vari racconti brevi e ed emozionanti allo stesso tempo. 

TOBINO 1962 Zita dei fiori